'll cattivo poeta' conversazione con Gianluca Jodice - Taxidrivers.it

2021-12-27 12:31:44 By : Ms. Prerinse MS

Un’interessante conversazione con il regista del film: protagonista Gabriele D’Annunzio.

Dopo l’uscita estiva arriva su Sky Cinema Il cattivo poeta, esordio alla regia di Gianluca Jodice in cui la figura di Gabriele D’Annunzio diventa l’emblema di un paese sull’orlo del baratro. Ospite del Lamezia Internanional Film Fest, abbiamo chiesto al regista di raccontarsi la genesi del film.

Al di là della vicenda e dei suoi protagonisti Il cattivo poeta si potrebbe definire come il racconto di una disillusione; la stessa che poi è al centro della storia di formazione di Giovanni Comini, il giovane federale interpretato da Francesco Patanè.   

Sono d’accordo. Qualcuno ha detto che la presenza di Gabriele D’Annunzio è stato un po’ un pretesto per raccontare il fascismo, altri hanno detto il contrario. In realtà quando scrivi un film che per forza di cose è abbastanza complesso tutto diventa un pretesto. D’annunzio è un pretesto per evocare il fascismo, il fascismo lo è per raccontare un passaggio tragico della nostra storia; quest’ultimo diventa, come dici tu, l’occasione per mettere in scena la disillusione tipica dei romanzi di formazione. Nel film ci sono un po’ tutte queste cose, ma il centro è il racconto di formazione, ovvero la fenomenologia del giovane fascista inizialmente fedele e speranzoso verso Mussolini e nel regime e poi, dopo aver conosciuto D’Annunzio, sempre più dubbioso sulla giustezza del proprio credo.

Dal punto di vista visivo il tema della disillusione è rappresentato dal rapporto tra il protagonista e l’iconografia del potere. Se nella prima scena lo spazio visivo è dominato dal ritratto del Duce e dai dettagli della divisa che Comini sta per indossare, nel proseguo della vicenda si verifica una sorta di spoliazione dai segni del regime fascista. Prima fra tutti proprio la divisa, sostituita da abiti civili nel momento in cui il giovane è inviato a casa di D’Annunzio.  

È sicuramente, come dici tu, nel senso che con il passare del tempo Giovanni perde dei pezzi di sé. L’inizio è pieno di promesse e di cose: dallo stipendio alla casetta assegnatagli dai suoi superiori fino alla frequentazione di una ragazza. Il suo primo incarico è dei più delicati e sarà proprio quello a destabilizzare le fondamenta delle sue certezze. La disobbedienza e il disaccordo che lo accompagneranno in certi ambienti saranno la causa della sua rovina. Alla fine perderà tutto: la ragazza, l’amico poeta e mentore e persino il lavoro. Cacciato dal regime si resta incerti su quello che sarà il suo futuro.

Sempre nella sequenza iniziale, quella in cui i dubbi sono ancora lontani, la fiducia nei confronti del Duce è resa dal rapporto di dipendenza tra la foto di Mussolini appesa al muro e la desaturazione dei colori con cui hai deciso di girare la scena. In quel modo rendi evidente lo stato d’animo di Comini come pure la natura profonda del suo legame con l’esperienza fascista promossa dal Duce. 

Sì, nel senso che prima delle riprese con il direttore della fotografia Daniele Ciprì c’è stato un ragionamento sul modo di girare e sul cromatismo da adottare per sottolineare il passaggio da un ambiente all’altro. Così è vero che il Vittoriale è stato reso con colori più caldi e profondi, laddove nei palazzi del potere la colorazione doveva subire un impoverimento. Oltre allo studio dei colori c’è stato anche quello sulle lenti perché il film è stato girato con due tipi di obiettivi diversi, a secondo di dove si filmava. Il Vittoriale è stato ripreso sempre con lenti anamorfiche vintage, le cui caratteristiche sono quelle di assorbire male i riflessi e le luci rendendole in qualche modo sporche e con molte curve a grandangolo. Per tutti gli altri luoghi abbiamo utilizzato lenti sferiche tradizionali molto geometriche proprio per esaltare la struttura retorica e pulita tipica della propaganda di regime presente anche nella casa di Giovanni.

Per questo ho trovato efficace la scelta di subordinare la fotografia della casa di Giovanni a quella del ritratto del Duce. Adeguando il colore delle luci alla desaturazione cromatica hai reso al meglio la fascinazione di Comini nei confronti di Mussolini. 

Esatto. Così facendo era come se tutte quelle figure fossero un’emanazione della propaganda fascista. Pensa alla scena dei genitori di Giovanni che a un certo punto diventano dei delatori pronti a denunciare i loro amici. Lì si tocca ancora più con mano come la voce del padrone fosse in grado di arrivare nel tinello delle case in cui, anche le persone più semplici, si trasformavano più o meno consapevolmente in altoparlanti di quello che gli era stato detto. Il bianco e nero di cui parli è una delle tante conseguenze dell’emanazione dei diktat che in un regime vengono sempre dall’alto.

Così è Comini nella sequenza sopra cui scorrono i titoli di testa. In campo lungo infatti vediamo il giovane federale che si avvicina all’obiettivo dopo essere uscito da un palazzo della burocrazia fascista. Avvolta nel buio, l’identità del protagonista risulta indistinguibile e dunque spersonalizzata rispetto alla nitidezza dell’edificio da cui proviene. Il rapporto spaziale e il gioco di luci rendono al meglio il concetto di emanazione: in quel momento Comini non ha più un’identità; la sua presenza è giustificata solo come emissario del potere. 

Devo aggiungere poco alla tua analisi. Lì Giovanni è una pedina felice, poi diventa consapevole e in quel momento storico questo gli sarà letale.

Nel tuo film i luoghi raccontano la storia anche per come li riprendi. Palazzo Venezia è reso in maniera razionale e asettica e con movimenti di macchina lineari mentre la passione presente all’interno del Vittoriale trova modo di emergere attraverso composizioni più classiche.

Da una parte abbiamo l’ipocrisia fascista rappresentata dal bianco dei marmi e dalle geometrie erette, dall’altra ci sono le curvature del poetico, le smussature, le ambiguità, le penombre di una autenticità più sofferta, quella della poesia che sta soccombendo insieme al suo cantore.

Nella prima parte certifichi la fede del protagonista attraverso un apparato visivo ricco di simboli, di allusioni, di doppi racconti che nella seconda lasceranno spazio a elementi più lirici e poetici. Ricordando che Daniele Ciprì aveva già ragionato sul corpo del potere e sulla sua rappresentazione, la coerenza tra i fatti della storia e la tua messinscena sta proprio nell’argomentare con lo stesso apparato di simboli con cui il Fascismo legittimava il suo potere. 

Senza dirlo esplicitamente hai citato Marco Bellocchio, e cioè uno dei pochi che, insieme a Bernardo Bertolucci, ha raccontato il fascismo dall’interno, perché poi al novantanove per cento il regime è stato raccontato dal punto di vista della resistenza. Questo perché ingenuamente si pensava che adottare una prospettiva interna equivalesse in qualche modo ad aderire alle sue azioni. Le opere che lo fanno, oltre ai capolavori appena citati, si contano sulle dita di una mano quindi la cosa che dici tu è vera perché Il cattivo poeta voleva essere un film sul fascismo, anzi, un film del fascismo. Poi è chiaro che esiste un punto di vista, come pure non si può dimenticare che il personaggio di D’Annunzio è quanto di più lontano ci sia dalle istanze del regime, pur avendo avuto un’iniziale amicizia con Mussolini. In questi fatti c’è una complessità e un’autenticità che io ho voluto molto preservare. Non c’è stato minimamente da parte mia la voglia di sovrapporre a posteriori una visione antifascista. Volevo fare un film inattuale, calato filologicamente in quei momenti e in quelle complessità, cercando di ricostruirne le dinamiche e le psicologie partendo dalle persone che ci avevano creduto.

Questo è vero anche quando si tratta di raccontare la vita intima del poeta che tu esplori evitando il voyeurismo legato agli aneddoti delle sue pratiche sessuali. Farlo ti avrebbe forse garantito un surplus di curiosità, ma avrebbe tradito gli intenti del tuo progetto. 

Parli dell’erotismo, delle donne e di tutto quel lato della vulgata dannunziana. Sì, ne ho fatto cenno, ma quando fai un film su D’Annunzio devi scegliere cosa raccontare, devi avere un taglio preciso. Se ti fai prendere dall’ansia di essere esaustivo fallisci perché lui è uno che ha vissuto mille vite. Anche concentrandomi sugli ultimi due anni di vita c’era il rischio di sviare e di non avere un centro, quindi tutte le altre cose le ho volute far balenare nei ricordi delle amanti che ogni tanto lo andavano a trovare. Tutto questo per evocare il suo passato e il resto della sua vita. Dovevo essere centrato su quello che mi interessava e sul taglio preciso che volevo dargli. Se non lo avessi fatto sarei annegato.

In quanto biopic essere esaustivo avrebbe reso Il Cattivo poeta un film profondamente didascalico, pieno di camei e di personaggi puramente funzionali.   

Sarebbe diventato un polpettone in cui la vita del poeta sarebbe risultata per forza di cose macchiettistica. Sono sempre stato consapevole che una cosa del genere non l’avrei mai fatta.

Un’ultima cosa sulle inquadrature: soprattutto nella prima parte insisti molto nel filmare i palazzi del potere in campo lungo, esaltando la differenze tra l’enormità di quelle strutture rispetto alla piccolezza delle persone. Anche in questo caso mi pare ci fosse la volontà di rendere lo schiacciamento psicologico ed emotivo dei cittadini da parte del regime. 

Assolutamente, uno dei riferimenti molto banali, ma espliciti che mi hanno guidato è stata la pittura di Giorgio De Chirico, quella del suo periodo metafisico, con le piazze assolate e desolate dove gli uomini camminano sovrastati dal regime, dal tempo, da cose che li trascendono. Spero che nel film ci sia almeno un poco di questa visione; che si riescano a raccontare i respiri, i sentimenti, le emozioni dei personaggi, ma anche la storia che ci ha preceduto e nella quale siamo stati gettati. Il cattivo poeta voleva essere un film su come si muove la grande onda della storia e sulle conseguenze provocate nella vita delle persone. Quella per me è l’emozione finale del film.

C’è una scena bellissima che, secondo me, rende il sentimento e la dimensione esistenziale del giovane protagonista. Mi riferisco a quando entra per la prima volta a palazzo Venezia. Per come lo riprendi, immerso nel bianco abbacinante dei marmi e sovrastato dalle imponenti linee architettoniche, Comini sembra come sospeso all’interno di una bolla spazio temporale. Tutto appare irreale come dimostra l’eco di un discorso del Duce, immaginato più che ascoltato dal protagonista in quello che è un vero e proprio percorso iniziatico che lo porterà di fronte a Starace. Peraltro in queste sequenze lo riprendi sempre mentre sale le scale, a sottolineare come quel momento per lui equivalga all’ascesa nel nuovo Olimpo.

Certo, assolutamente. Starace era il suo mentore e quelli erano i palazzi a cui i giovani in carriera, federali e segretari regionali sognavano di accedere. In quel momento racconto un giovane felice del suo lavoro prestato a una causa superiore. Lui andava dove c’erano i capi della nazione, i suoi mentori e quindi sì, c’era questo senso di ascesa, di salire nel palazzo per eccellenza, quello dove stava Mussolini. Per questo era necessario produrre questa sensazione di grandiosità anche intima, perché riguardava proprio il cuore del nostro protagonista.

Il cattivo poeta racconta molte cose. Una di queste potrebbe essere il confronto-scontro tra due personalità. Entrambi, in un modo o nell’altro, erano due grandi seduttori.

Beh, sì, quella è a sua volta una storia lunga e complessa che io ho sintetizzato attraverso vari passaggi e di cui ho messo in scena in maniera forte ed esplicita solo l’ultimo tratto. C’è un libro di uno storico importante (Salierno Vito, ndr) intitolato D’Annunzio e Mussolini Storia di una cordiale inimicizia, in cui si apprende che Mussolini è sempre stato un fan di D’Annunzio. Viceversa quest’ultimo lo snobbava considerandolo un maestro elementare che si confrontava con il grande poeta internazionale. Poi però le cose si sono ribaltate perché Mussolini è divento il capo assoluto della nazione mentre a D’annunzio, auto isolatosi e sempre più depresso, rimaneva il fascino e il carisma capace di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica italiana.

Tant’è che a ogni discorso o alla pubblicazione di un articolo i piani alti tremavano e per questa ragione, come succede nel film con Giovanni Comini, inviavano al Vittoriale chi doveva informarli sulle prossime mosse del poeta. Anche perché ricordiamo che si tratta di una storia assolutamente vera, per cui sì, questa inimicizia ne Il cattivo poeta è suggellata nella rievocazione del loro ultimo incontro, quando, alla stazione di Verona, Mussolini fa finta di non sentire le parole di critica del poeta, preferendo rivolgersi alla folla che gli tributa gli onori. È quello il momento in cui D’Annunzio capisce che il paese è oramai schierato con lui senza che si potesse più mettere un freno a questa scivolata, questa discesa all’inferno.

Nelle scene in cui introduci Gabriele D’Annunzio dai fin da subito l’idea di un uomo sovrastato dagli eventi e non in grado di controllare la situazione. Questa è la sensazione trasmessa dalla sequenza in cui il vate è ripreso di schiena, seduto nel letto, con il corpo della donna che gli si erge sopra. Così è anche quella successiva, in cui la mdp fatica a restituire la silhouette del poeta, coperta in parte dall’uditorio che si appresta ad ascoltarlo.   

Sì, perché D’Annunzio era padrone del suo castello, ma in realtà era sorvegliatissimo e guidato da una sorta di corte. Quindi sì, era un finto padrone in realtà schiavo di lacci e manette che il regime gli metteva attorno. Dunque, come dici tu, quelle sequenze sono state costruire per trasmettere tali sensazioni.

Nel film è forte il contrasto tra i volti dei gerarchi fascisti, dominati da neri e grigi che li fanno sembrare dei fantasmi, e quelli presenti all’interno del Vittoriale in cui, nonostante la fotografia sia molto scura, esiste questa luce gialla che certifica l’esistenza di un minimo di vitalità e di passione. 

Sì, nonostante si tratti di persone rimaste legate all’esperienza di Fiume e al suo passato glorioso, la corte si aggira per gli ambienti come fantasmi vivi che vorrebbero vedere altro che i morti, cioè i fascisti, precipitare l’Italia nel burrone della sua rovina.

In questo senso il corpo di D’Annunzio diventa il corpo di quell’Italia che sta per cadere nel baratro. La narrazione mi sembra sposare tale accostamento. 

Quando fai un biopic concentrandoti sulla figura di uomo ovviamente coltivi l’ambizione che la vita di questa persona diventi anche emblematica di qualcosa di più grande. Così, fin da quando ho iniziato a raccogliere documenti e suggestioni sull’ultimo periodo di vita di D’Annunzio, la scintilla è stata quella di agganciare il crepuscolo e la morte del vecchio poeta nazionale alla caduta dell’intero paese, destinato a entrare nella carneficina che fu la seconda guerra mondiale.

Ci sono altre due sequenze che ci dicono dello stato d’animo di quel periodo e di quanto fosse invasiva la propaganda del regime nei sentimenti delle persone. Mi riferisco alla storia d’amore tra Comini e la sua ragazza. Nella prima è ancora una volta il poster del Duce a incombere sul bacio degli amanti; nella seconda invece la ripresa frontale trasforma le ante del letto nelle sbarre di una prigione. I due ragazzi hanno appena fatto l’amore, ma il nefasto presagio di ciò che potrebbe accadere non li abbandona neanche nell’intimità della camera da letto. 

È vero, bravo, perché le sbarre della brandina del letto danno la sensazione di un destino da cui non si può fuggire. Peraltro dopo aver fatto l’amore parlano di Mussolini e non di loro due quindi sì, è vero, tutto quello che accade nelle esistenze delle persone è sempre improntato alla grande storia, a quello che succede fuori, più in alto delle loro teste. Anche quando i due amanti fanno l’amore c’è un senso di panico nei confronti del futuro: su di loro incombe un’aria da apocalisse che non il singolo non può non sentire.

Nel film c’è una frase di cui ti voglio chiedere perché mi sembra la conseguenza di una riflessione che ti appartiene non solo come regista, ma anche come persona. Parlando del rapporto tra idea e linguaggio D’Annunzio dice che il secondo rende estraneo ciò che intimo e che allo stesso modo la politica si comporta rispetto ai suoi ideali, facendoli  diventare cupi e irriconoscibili. Peraltro è un’affermazione che condivido perché anche io ho avuto modo di constatarla.

In quella frase non c’è traccia di ambiguità. È molto forte e accessibile che non riesco neanche a commentarla. Si tratta di un’affermazione reale come quasi il novanta per cento delle cose che gli faccio dire nel film. Quando D’Annunzio afferma che il linguaggio rende estraneo ciò che è intimo è frutto del suo pensiero mentre ciò che resta, e cioè il paragone con la politica, è stato aggiunto da me. Non mi ritengo un filosofo però sicuramente questo nichilismo così radicale deriva da una visione che mi appartiene. Parliamo di una matrice tipica dei grandi regimi totalitari del novecento che trasformano gli ideali di bellezza e purezza in qualcosa di infernale ed estraneo a qualsiasi altra dimensione politica. Perché questo avvenga, per me, rimane un mistero tra il teologico e il politico. È un pessimismo epidermico e reale che non ha nulla di astratto e di filosofico e che si è rafforzato in me leggendo e studiando la vita e i testi di D’Annunzio, soprattutto quelli dell’ultimo periodo in cui lui è al massimo apice di depressione e rassegnazione sulle sorti del nostro paese.

Come tutti film in costume anche Il cattivo poeta si portava dietro un onere di costi a cui tu hai supplito attraverso una dialettica di apertura e restrizione di campo della mdp che ti ha permesso comunque di arrivare al risultato.   

Mi fa piacere che tu, come altri, lo abbia notato. Sono stato aiutato dal fatto che il Vittoriale ha coperto la maggior parte delle location. Tieni conto che nessuno ci aveva mai girato quindi era un tesoro e allo stesso tempo un’occasione ghiotta per il film. In ogni caso un film storico non l’avrei mai fatto perché sarei affogato nella grandezza della produzione e delle scenografie. Volevo sì, fare un film di quell’epoca, ma che fosse in qualche modo intimo, filosofico, esistenziale, nella speranza di arrivare a una dimensione un po’ più metafisica, strana e insieme magica. Da qui anche la ricerca di una certa rarefazione, caratteristica contraria al genere a cui facevi riferimento. Come ti dicevo avevo in mente i quadri di De Chirico, la cui desolazione era contraria all’impiego delle masse utilizzate nei film d’epoca. Il cattivo poeta è stato concepito così da subito senza che questa fosse una scelta condizionata dalla presenza o meno di grosso capitali.

Il cattivo poeta è anche un film di grandi attori, aggettivo riferito non solo alla carriera degli stessi, ma anche alla qualità delle singole performance. Nello specifico, il confronto tra D’Annunzio e Comini è anche quello tra un giovane attore, Francesco Patanè e un grande del nostro cinema come Sergio Castellitto.

Mi piace molto che tu insista sempre sul meta linguaggio perché il rapporto di cui parli lo è per antonomasia. Sergio Castellitto mi diceva sempre di non voler fare troppe prove con Francesco proprio per lasciare intatta la deferenza del giovane collega di fronte a un grande e vecchio attore; una fascinazione che era la stessa provata da Comini al cospetto di D’Annunzio. In questo senso tra la realtà e la finzione c’è stato un travaso molto fruttuoso in termini di interpretazioni. Ho cercato attori molto bravi e di impianto teatrale come Tommaso Ragno proprio perché, essendo Il cattivo poeta un film intimo, la scena assomigliava a un palcoscenico in cui le voci sembravano uscire dall’ombra. Per me il Vittoriale era una bolla spazio temporale che stava fuori anche dal suo tempo. Da qui l’importanza di avere attori in grado di recitare con la voce.

Fausto Russo Alesi e Lidiya Liberman sono altre due facce che non si dimenticano.

Il primo è un grandissimo attore che ha lavorato molto anche con Bellocchio, per cui è stato Giovanni Falcone ne Il traditore. Non dovrei essere io a dirlo ma nella parte di Starace è stato fantastico. La scena finale, quando lui torna a palazzo Venezia credo sia la mia preferita assieme a quella in cui Comini va a chiedere al Ministro i fondi per restaurare il vittoriale.

Sono d’accordo con te: il modo in cui guarda Comini, portandosi la mano sul viso e rimanendo in silenzio a osservare il suo interlocutore, è un piccolo capolavoro di recitazione, capace come pochi di far sentire allo spettatore il presagio della fine, con la minaccia della guerra che si palesa all’orizzonte.

Come tutti i grandi attori, con Sergio è stato facilissimo lavorare; non che Russo Alesi non lo sia, però è chiaro che è più giovane e non ha fatto tutti quei film. Sergio invece ha più di quarant’anni di carriera, è un animale da set e dunque al primo ciak è già perfetto. Con gli altri, per quanto bravi, ci devi arrivare un poco alla volta. Riguardo Fausto, per me, la sua interpretazione di Starace è da ritagliare.

Parliamo dei film della tua vita, o almeno di quelli che ti hanno influenzato?  

Io sono un cinefilo e, in quanto tale, ho visto e vedo ancora tutto. Ovviamente intendo le cose belle, non il primo film che capita. Non lo faccio per ansia nozionistica o enciclopedica, dei film mi piace tutto. Anche ciò che si scrive su di essi, per cui leggo i testi che li approfondiscono dal punto di vista critico. Citarne due e tre non so quanto valga, però ti posso dire quelli che sono stati più funzionali al mio film.

Uno di questi è stato Il conformista di Bernardo Bertolucci ambientato nella stessa epoca in cui si sono svolte le vicende de Il cattivo poeta. Certo, aveva il difetto di essere talmente inarrivabile da essermi servito a poco. Diciamo  che lo tenevo lì più per differenziarmene nel senso che a volte rischi di adagiarti e tendi a copiare le cose belle, quindi è stato più una castrazione che una risorsa. Tra le cose utili c’è stata di sicuro la trilogia del potere di Alexander Sokurov, in particolare Taurus che raccontava gli ultimi giorni di Lenin, accudito dalle sorelle nella casa di famiglia. Ecco, quel tocco così intimo, autentico e credibilissimo sulla storia e sull’uomo di potere non mi ha dato soluzioni pratiche, ma di certo mi ha regalato uno sguardo personale dandomi il coraggio e la spinta per creare qualcosa di mio senza troppa reverenza verso i personaggi che stavo raccontando. Oltre alla bellezza assoluta dei suoi film, Sokurov ha quella lentezza, quella temporalità che non aderisce ai comandamenti con cui i manuali parlano di come deve essere la struttura della sceneggiatura. Quando fai un film storico ciò che gli dà credibilità sono i passaggi e la temporalità. Si tratta di scolpire il tempo per dirla alla maniera di Tarkovsky. Io sono molto attento a creare una struttura congrua, capace di possedere una sua risonanza.

Leggi anche: Il Cattivo Poeta: su Sky l’incredibile esordio di Gianluca Jodice. La recensione

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