Lutto perinatale: storie di genitori che hanno perso i piccoli

2022-09-17 15:04:03 By : Mr. Minghua Shen

Il lutto perinatale è un tema doloroso che non viene affrontato quasi mai: siamo ancora genitori dopo che perdiamo i piccoli? Alcune storie di persone che sono sopravvissute al dolore senza nome: la perdita di un neonato

Marta e suo marito James hanno provato l'esperienza di tre perdite in tre anni: lei ha abortito spontaneamente nel 2018 e nel 2019 prima che la loro figlia, Sofia, morisse nel 2020. Con il suo blog sulla perdita del bambino, dal titolo "Mumoirs", Marta ha deciso di rompere il silenzio sul lutto perinatale e di creare qualcosa che fosse come un'eredità, nel nome dei suoi tre bambini. "Ognuno ha il suo punto di rottura, per me è stata la terza gravidanza finita nel vuoto: tre anni consecutivi e tre sconfitte consecutive, la prima nel 2018 con un aborto spontaneo alla settima settimana, la seconda nel 2019, a 11 settimane, e la terza nel 2020. Quest'ultima perdita è stata la morte perinatale di nostra figlia, Sofia, nata a 19 settimane e 5 giorni. Ha vissuto per poco più di un'ora e si è spenta tra le mie braccia. Ecco, quello è stato il mio punto di rottura personale: avevo visto e vissuto troppi dolori, per farcela da sola, anche quella volta. Non sono mai state cellule, per me: erano i miei bambini dal momento in cui ho visto quelle due piccole linee rosa sul test di gravidanza, quando la mia immaginazione ha iniziato a galoppare immaginando come sarebbe stata la vita con loro". "Anche perché ho iniziato a fare progetti di vita che coinvolgessero i miei bambini anche molto prima di concepirli e, quando i test risultatavano positivi, tutti quei sogni atterravano finalmente sulla via della concretizzazione. Potevo finalmente navigare sui siti legati all'esperienza della maternità, potevo finalmente pensare ai piccoli vestitini per gli eventi speciali, alle vacanze con loro, alla quotidianità". "Durante le gravidanze ho fatto sempre attenzione a qualsiasi alimento ingoiassi, parlavo con i bimbi dal primo giorno di gestazione anche se mio marito, un medico, mi ricordava che in quella fase non c'era nessuno, ancora, nella mia pancia. Ma io mi divertivo a chiacchierare in libertà, commentavo ogni cosa, parlavo di musica e di arte, di sogni e progetti. Poi quando il primo bimbo è morto, tutto si è spento. E non ho avuto alcun supporto emotivo, nessun tipo di conforto che fosse sensato o sufficiente. Certo, mi sono state spiegate le opzioni che avevo a disposizione dal punto di vista medico e tecnico, ma non ho ricevuto nessuna informazione su come affrontare la cosa sul piano psicologico". "Credo sinceramente che la negligenza da parte di tutti, rispetto al lato emotivo di questa orribile esperienza, mi abbia impedito di incorniciare ciò che mi era successo, di dare un nome a quella fase: lutto perinatale è un termine troppo freddo. Mi sentivo ogni giorno come un peso morto, mi lasciavo trascinare dalle correnti, mentre avevo l'impressione di essere totalmente sola e che nessun'altra donna al mondo fosse in grado di comprendermi. Tuttavia ho dovuto riprendere la mia vita e così sono tornata al lavoro. La seconda volta, l'anno dopo, è stata come una replica della prima. La terza volta invece, è stata davvero ingestibile".

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"Non potevo semplicemente fingere che fosse tutto normale. Ero incinta da cinque mesi quando all'improvviso ho partorito e allora non ero più incinta, ma non ero nemmeno madre". "Due settimane dopo la morte di Sofia, James è tornato a lavoro, riprendendo a tempo pieno. Tre mesi dopo, con il cuore spezzato e una solitudine che mi offuscava perfino la vista, le persone intorno a me mi trattavano da sopravvissuta, dando per scontato che fossi andata oltre quel dolore, sopratutto perché era la terza volta che lo sperimentavo. Ma una terza volta, in questo caso, non rende le cose più facili, anzi". "È stata come un cassetto della memoria che ha riportato il passato alla luce nel momento in cui si è riaperto: tutto il turbamento, tutto il trauma, tutta l'angoscia erano adesso più stabili che mai, più opprimenti che mai. Non potevo solo distrarmi o ignorare quelle sensazioni così invalidanti, e ho scelto di fare qualcosa di nuovo, di costruttivo: ho iniziato a scrivere. Ho aperto il mio blog e da allora non ho smesso di aggiornarlo. Scrivere mi ha aiutato a elaborare il lutto e negli ultimi due anni ho scritto centinaia di post, poesie (anche se non troppo belle), testi di canzoni e piccoli pensieri. Ho scritto racconti, lunghe liste, lettere senza destinatario". "Ho scritto tutto ciò che in quei momenti mi faceva sentire un filo meno male, di getto e senza pensarci troppo e, devo dire, mi ha aiutato molto nell'elaborazione del lutto. Non avevo grandi progetti, avevo solo bisogno di svuotare la mia mente e di parlare in modo completamente onesto (James dice che metto nero su bianco delle "verità brutali") di quanto accade per far sapere alla gente che non stavo affatto bene, spiegando anche il perché non era giusto aspettarsi che stessi bene già l'indomani". "E ancora oggi vedo lo star bene, intendo bene come prima, come qualcosa che forse non accadrà mai più. Forse davvero attraverso dettagli "brutali", ho voluto raccontare come l'aborto spontaneo sia orribile fisicamente e mentalmente, chiedendomi come mai così tante persone scelgono di non affrontare il tema, e come infatti molti dei miei amici si sono allontanati, come gli annunci di gravidanza degli altri ti colpiscono al cuore, come i compleanni e il Natale siano dolorosi quando avevi già pensato a festeggiare con dei bambini, come i medici con la loro freddezza possano peggiorare le cose, come la cremazione di un bambino è qualcosa che mai avresti pensato di fare". "Ho anche parlato di come alcune persone si stringono a te e ti stanno accanto, della gentilezza inaspettata, di come a volte degli estranei diventano ancore di salvezza e la famiglia sia solo fonte di altro dolore". "Quando ho lanciato il blog, avrei dato qualsiasi cosa perché una sola estranea potesse leggerlo e trovare conforto ma incredibilmente, lo aprono centinaia di persone che mi leggono da diverse parti del mondo. Non posso che provare gioia sapendo che i miei scritti, per quanto personali, siano a loro volta un'ancora per delle persone che come me aspettavano soltanto di trovare qualcuno che le capisse. Qualcuno che dicesse loro è successo anche a me, non sei sola".

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Devi, 37 anni, ha perso suo figlio a 22 settimane, adesso vive con il marito e il loro piccolo Andrea, che ha 4 anni. "Sono rimasta incinta di Andrea l'anno dopo essermi sposata, abbiamo sempre voluto dei figli. Nel 2020 eravamo pronti a ingrandire la famiglia, così sono rimasta di nuovo incinta nel maggio di quell'anno". "Il primo trimestre è stato difficile, non stavo affatto bene e ho avuto un paio di sanguinamenti a circa 8 o 9 settimane, ma dalle analisi risultava che tutto stava andando bene. Giunti a 22 settimane ho detto a mio marito che sentivo che i movimenti del piccolo erano come rallentati e che per questo volevo sottopormi a dei controlli. Mi dicevo che era una precauzione e che tutto sarebbe andato bene, avevo perfino organizzato delle altre cose da fare più tardi, quello stesso giorno". "Ma il ginecologo in fase di controllo mi ha detto che la cervice era molto corta e che sarei potuta andare in travaglio in qualsiasi momento. Inoltre, dicendo che il suo studio non era attrezzato per un eventuale parto d'urgenza, mi ha messa su una ambulanza e fatta portare di corsa verso l'ospedale più vicino per concludere la gestazione da ricoverata". "Anche allora ho cercato di rimanere positiva, avevo sentito diverse storie di parti prematuri ma mi dicevo che a me non sarebbe successo. In ospedale mi hanno visitata di nuovo e hanno confermato la situazione, hanno discusso sull'ipotesi di mettere dei punti di sutura di emergenza ma erano preoccupati che l'intervento avrebbe fatto rompere le acque, quindi hanno deciso di monitorarmi e di aspettare. Ricordo di aver chiesto ai medici varie volte quali prospettive ci fossero per me e per il bambino, ma nessuno poteva davvero dirlo". "Il parto avrebbe potuto avvenire dopo poche ore o dopo settimane. In quei giorni avevo troppa paura anche per andare in bagno, c'era un'infermiera che stava sempre con me mentre mio marito era rimasto a casa con Andrea. L'ostetrica un giorno ha detto che il battito del mio polso era accelerato, poi la mattina dell'indomani un altro medico ha detto di essere preoccupato perché quello poteva essere il sintomo di una infezione. Ho risposto che mi sentivo bene, che potevo sentire mio figlio scalciare, che potevano serenamente continuare a monitorarmi senza allarmismi". "Ma quando lo specialista di medicina fetale mi ha visitata ha detto che non sarebbe stato sicuro per me continuare la gravidanza e che l'infezione c'era, si stava aggravando e che era nell'utero. L'unico modo per guarire era svuotare l'utero, partorendo".

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"Ero totalmente intontita dai farmaci ma ricordo che un medico ha sussurrato: Non è sopravvissuto al travaglio. Ricordo di averlo tenuto in braccio, di averlo guardato e di essermi sentita felice, anche se per pochi secondi". "Ricordo poi di essermi addormentata mentre mio marito lo teneva tra le braccia. Hanno preso i calchi delle sue manine e dei suoi piedini e li hanno messi in una scatola dei ricordi insieme alla sua coperta e al suo cappellino. Eravamo contenti, avevamo potuto trascorrere con lui dei minuti preziosi. È stato difficile, tuttavia, lasciarlo e tornare a casa con quella scatola invece che con lui. Ma ritrovare Andrea che ci aspettava è stato fondamentale perché mi ha dato uno scopo, un motivo per alzarmi la mattina". "Abbiamo organizzato un piccolo funerale ed stato traumatizzante, abbiamo messo alcune piccole cose in una bara altrettanto piccola, abbiamo aggiunto una nostra foto, una macchinina e un cuoricino gemello di un altro che abbiamo tenuto noi. È stata la cosa più difficile che ho fatto, ma è stato un saluto che volevamo dargli". "Per tentare di fermare il dolore di quella perdita abbiamo deciso di andare in terapia e, proprio li, abbiamo capito che il dolore non si può bloccare ma si deve affrontare, occorreva entrare in contatto con quel bambino per poter guardare indietro, un giorno, con amore e riuscire ad aprire quella scatola senza sentirsi schiacciare dal peso del lutto. Quando è finalmente accaduto abbiamo pianto, sia io che mio marito. Ma stiamo reagendo in modo diverso. Lui guarda le piccole cose del bambino e prova emozioni forti, ovviamente, ma tutto sommato positive, io invece non riesco a perdonare il destino per quello che ci ha fatto". "Mi sento triste, come se l'amore che ho provato in quegli istanti subito dopo il parto fosse scomparso per lasciare posto alla rabbia e al rancore. La gente diceva che il dolore non va mai via e questo mi preoccupava, ma pensavo che un giorno lo avrei superato. Invece il dolore arriva a ondate, spezzando giorni in cui riesco a essere serena e a gestire il lutto". "E a volte mi sento in colpa perchè sembra che il mio ruolo di madre, visto che ho ancora Andrea, non possa conciliarsi con quello di una persona che sta ancora elaborando la ferita di una perdita così grande".

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Giovanni vive con sua moglie, Anna, e il loro figlio, Ivan. Quando hanno scoperto che il cuoricino della loro piccola ha smesso di battere a 18 settimane il loro cuore si è spezzato, entrambi sono stati schiacciati da un dolore immenso ma hanno affrontato il lutto in modi completamente diversi. “Non riuscivo a capire appieno le parole che mia moglie stava dicendo quando è tornata a casa dall'ospedale e mi ha detto che avevamo perso la nostra bambina. Mi sono accasciato contro il muro e ho pianto con lei, mentre nostro figlio di 3 anni, Ivan, dormiva. Al mattino successivo abbiamo lasciato il bambino all'asilo e siamo tornati in ospedale per un'altro esame". "Ne abbiamo fatti due e nonostante la notizia fosse confermata io speravo ancora che ci fossero degli errori, speravo che l'ecografista d punto in bianco dicesse che poteva vedere un debole battito cardiaco. Ma il cuore aveva smesso di battere a circa 18 settimane. Io e Anna guardavamo l'immagine di nostra figlia, immobile, sul monitor mentre l'ecografista indicava la cavità dove avrebbe dovuto vedersi un piccolo cuoricino che batteva. Ma non c'era". "Nei giorni successivi, in ospedale, ho tenuto stretta la mano di Anna ogni volta che un diverso medico veniva a fare il punto per chiarire quale fosse l'iter, insieme concordammo che mi sarei occupato di Ivan e della casa: lei doveva restare in ospedale per partorire. Era la prima volta che trascorreva del tempo lontano da Ivan. Passavo le giornate con lei, se non potrvo essere fisicamente al suo fianco la videochiamavo, le portavo il suo cibo preferito e ho cercato di darle il sostegno di cui aveva bisogno. In qualche modo la perdita della bambina è stata un'opportunità per rafforzarci e legarci l'un l'altra". "Però eravamo distanti nel modo in cui soffrivamo e nel modo in cui affrontavamo il lutto. Nei minuti dopo il parto Anna voleva scattare foto e passare più tempo possibile con nostra figlia, che abbiamo chiamato Rachele, ma per me era straziante". "Quando siamo tornati a casa voleva parlarne in continuazione mentre io trovavo confronto soltanto pensando ad altro: cucinavo, giocavo con Ivan, passeggiavo. Proprio giocare con nostro figlio, insieme, è stato curativo. Lui capiva che la sua mamma e il suo papà erano un po' tristi ma non afferrava il perché fino in fondo. Sapeva che la mamma aveva perso una bambina mentre ancora era nella pancia e per la prima volta nella sua vita quel piccolino ci aveva chiesto se fossimo felici". "Era preoccupato per noi, le sue coccole e i suoi baci sono stati il migliore antidolorifico che potessimo sperare di avere. Il dolore che proviamo però, non scomparirà mai. Il giorno del funerale è stato il più difficile. La bara di Rachele era leggera, ma contemporaneamente era l'oggetto più pesante che avessi mai portato sulle spalle. Ogni briciola di terra che andava a ricoprire la tomba è stata una pugnalata al mio cuore. È stata la cosa più difficile che ho mai dovuto fare". "La perdita di nostra figlia è un dolore che non supereremo mai, ma, giorno dopo giorno, io e mia moglie stiamo imparando a essere più forti".

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Raimondo e la moglie Chiara hanno perso la loro bambina quando aveva circa 7 mesi di vita. Dopo tre anni di tentativi per avere un bambino c'è stata una gravidanza difficile e dopo, per sette mesi, la coppia è stata più tempo dentro che fuori dall'ospedale, con la bambina tra le braccia. “Non ci saremmo mai aspettati di perderla”, dicono. “Ci è voluto molto tempo perché Chiara rimanesse incinta, avevamo provato naturalmente, poi siamo stati indirizzati a dei trattamenti per la fertilità e fortunatamente, hanno funzionato. Quando Chiara ha fatto il test di gravidanza mi ha svegliato intorno alle 4 del mattino per dirmi che era positivo e, da quel momento, tutto nella nostra vita è cambiato. Le responsabilità di padre per me erano ufficialmente iniziate e quella che sentivo era una combinazione delle emozioni più felici che io abbia mai provato". "Viste le difficoltà di concepire ero molto cauto nell'annunciare la gravidanza agli amici, ma abbastanza fiducioso che tutto sarebbe andato bene. Invece, la gravidanza è stata abbastanza difficile. A partire dal quinto mese occorreva misurare la piccola, prima ogni settimana, poi ogni giorno. Ero lì quando è nata: pesava appena un kg e otto e, il giorno dopo la nascita hanno rilevato due buchetti nel cuore. Io ero a casa perché avevo preso il Covid: Chiara mi ha telefonato per dirmelo, in lacrime, e io le risposi che avremmo risolto". "Però quando abbiamo chiuso mi sono lasciato andare ala paura: abbiamo avuto un bambina da poche ore e potrebbe già dover affrontare un intervento chirurgico a cuore aperto. Ma per fortuna i buchetti si sono chiusi da soli meno di due mesi dopo. Il terzo giorno dopo la nascita le hanno fatto un test dell'udito, era sorda. Ancora una volta, Chiara ha dovuto chiamarmi. Quella notizia è stata ancora più difficile da accettare perché, a differenza del cuore, quel danno non era riparabile e avrebbe avuto un impatto sulla vita della nostra bambina". "Anche in quel caso l'ho rassicurata dicendole che avremmo imparato tutto ciò che era necessario per assicurarci che stesse bene e che avrebbe vissuto una vita felice. Sono tornati a casa la domenica dopo, finalmente, dopo 3 anni di tentativi e una gravidanza difficile, la nostra bambina era a casa. Era una bambina felice, sorrideva e dava gioia a chiunque la guardasse. Abbiamo imparato da lei a essere forti da lei, come non impararlo?. Le facevamo il bagno insieme, la asciugavamo, le pettinavamo i capelli facendole una bella riga laterale". "Era una bambina così felice e rilassata che non avremmo mai potuto immaginare che c'era qualcosa che in realtà non andava. Quando la perdita dell'udito è stata confermata, circa 2 mesi dopo, mi sono reso conto che ogni notte quando la mettevamo a letto in una stanza buia, non poteva vedere o sentire nulla. Mi chiedevo se avesse paura".

"Quella preoccupazione improvvisa mi aveva davvero colpito: avevo letto che i bambini cercano conforto nei suoni emessi dai loro genitori e lei non poteva sentire assolutamente nessun suono. Così decisi che le avrei tenuto una mano sul petto per rassicurarla, ogni notte, finché non si fosse addormentata del tutto". "Quando ha fatto tre mesi le abbiamo messo degli apparecchi acustici, abbiamo dovuto usare del nastro adesivo per tenerli dentro perché era così piccola che non esistevano apparecchi adatti a lei. Stavamo anche imparando la lingua dei segni e cercavamo degli asili nido che fossero adatti ai suoi bisogni, per quando sarebbe stata più grande. Ma una notte, dopo che si era addormentata, ho notato che la sua testina si muoveva in modo strano sul baby monitor e sono andato di corsa nella sua stanzetta ma quando sono arrivato aveva la schiuma alla bocca". "Ha iniziato a diventare blu, quindi abbiamo chiamato il numero di emergenza: ci hanno detto di fare la rianimazione cardiopolmonare ma che stava comunque arrivando un'ambulanza. Quei pochi minuti mi sono sembrati un'eternità. Altri 10 minuti per arrivare in ospedale, che sono stati eterni, fino a quando tre medici che ci stavano aspettando fuori l'hanno portata in una sala". "Non pensavo che l'avrei persa quella notte. Sembrava così piccola, mentre collegata a un sacco di tubi e a un monitor. Ricordo che la dottoressa che guardava il cardiofrequenzimetro ogni 15 secondi continuava a dire: Nessun battito. Ricordo le sue parole, la sua voce. Le persone dello staff medico, una per una, hanno lasciato la sala finché non siamo rimasti io e Chiara con due infermieri. Hanno spento le macchine, hanno avvolto la nostra bambina in una coperta e ce l'hanno data, per consentirci di passare un po' di tempo con lei". "Sono sempre stato a mio agio nel non mostrare i miei sentimenti. Di solito riesco a vedere il lato positivo di ogni esperienza, per questo i miei amici si rivolgono spesso a me quando hanno bisogno di essere tirati su di morale. Non accadde quella volta. Non sono abituato ad essere io quello che ha bisogno di aiuto, ma perdere la mia bambina mi ha completamente distrutto: anche continuo a non mostrare del tutto l'infinito dolore che sento, sono stato costretto ad aprirmi e ho capito che tenersi dentro le emozioni, anche quelle più terribili, è la cosa più sbagliata che si possa fare". "Non è sempre facile per i papà chiedere aiuto. La gente mi diceva di essere forte per Chiara, che era come dirmi che io invece non potevo soffrire. Non dormivo, i miei pensieri più tristi venivano fuori all'improvviso e spesso quando mi addormentavo speravo di non svegliarmi sapendo che avrei di nuovo vissuto un'altro giorno con la consapevolezza di quello che era successo. Avevo incubi, rivivevo la notte in cui l'abbiamo persa, mi chiedevo perché ai maschi insegnano a essere forti. Mi chiedevo cosa ci sia di male per un uomo nel chiedere il sostegno alle persone care, nel dire Sto male, ho bisogno di aiuto". "Come società, dobbiamo ripensare a come affrontare i dolori, in particolare quello che nasce dalla perdita di un figlio. Le persone non sanno come fare a sopravvivere a questo preciso tipo di lutto per cui non c'è nemmeno un nome: pensiamo che parlarne alimenterà il dolore, che non parlarne ci fa chiudere in noi stessi. E avere un altro figlio non sostituisce quello che hai perso. Con Chiara abbiamo avuto un aborto spontaneo lo scorso aprile ma quel bambino sarebbe stato il fratellino della nostra piccola, non il suo sostituto".