Morte del nascituro alla 30esima settimana e responsabilità della struttura

2022-06-18 21:53:37 By : Mr. Julie Zhang

Gli attori citano a giudizio la Struttura del Policlinico per ottenere il ristoro dei danni non patrimoniali e patrimoniali per la morte del nascituro alla trentesima settimana di gestazione.

Viene dedotto che la donna, alla 30ª settimana di gestazione, si recava, in data 13 aprile 2013, presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale Policlinico per algie pelviche e perdite ematiche; sottoposta a visita ostetrica, veniva accertato che il collo dell’utero non mostrava modificazioni di rilievo; alle 12:35 dello stesso giorno iniziava terapia solitamente utilizzata per la minaccia di parto prematuro, segnatamente Bentelan come profilassi per la sindrome da stress respiratorio neonatale e vasosuprina per contrastare la presenza di contrazioni ; ricoverata presso il reparto di ginecologia , veniva rilevato il battito cardiaco fetale con sonda ad ultrasuoni e in serata con la cardiotocografia; alle 18:00 risultava in cartella clinica una rilevazione della temperatura corporea di 37.8° circa; alle 21 dello stesso giorno la situazione locale risultava “invariata” rispetto alla visita di accettazione; visitata la paziente dal medico di guardia poco dopo la mezzanotte, la visita non mostrava modificazioni di rilievo; nel corso della mattinata del 14 aprile 2013, nella quale le condizioni della paziente venivano definite come “discrete”, si eseguiva un nuovo monitoraggio cardiotocografico, refertato come normale, e venivano prescritti i tamponi vaginali; la temperatura corporea della paziente in data 14 aprile era salita a 38° e, contemporaneamente veniva riscontrato aumento della frequenza cardiaca nella madre e bradicardia fetale, condizione, quest’ultima, che orientava i sanitari per un taglio cesareo urgentissimo; la paziente veniva quindi sottoposta a taglio cesareo alle 15: 08 del 14 aprile 2013 con diagnosi di “bradicardia fetale”; nella descrizione dell’intervento veniva indicata “abbondante quantità di liquido intensamente tinto e notevolmente maleodorante… Si asporta notevole quantità di materiale infiammatorio presente sulle pareti uterine”; eseguito l’esame istologico sulla placenta, veniva riscontrata la presenza di corioamnionite, infezione della placenta e delle membrane, che i sanitari non avevano diagnosticato al momento dell’accettazione della paziente al Pronto Soccorso, e che aveva condotto alla morte intrauterina del feto, il quale , al momento dell’espulsione dal grembo materno, non dava segni vitali; era dunque configurabile la responsabilità contrattuale d ella Struttura per la omessa diagnosi di infezione intrauterina , per non aver somministrato tempestivamente alla paziente terapia antibiotica, peraltro somministrata solo successivamente al parto, ed infine per non avere tempestivamente eseguito il taglio cesareo.

La CTU espletata ha evidenziato una condotta censurabile posta in essere dal personale sanitario del Policlinico che ebbe in cura l’attrice.

“Le modeste tracce ematiche e le algie pelviche lamentate dalla paziente al suo ingresso presso il Policlinico Casilino, interpretate come sintomi di minaccia di parto prematuro nonostante l’iniziale scarsa attività contrattile uterina e l’assenza di rilevanti modificazioni del collo dell’utero, hanno indirizzato in tal senso i sanitari curanti, sin dalla prima giornata di ricovero, inducendoli ad attuare una terapia miolitica e, mediante la somministrazione di cortisonici, preparatoria ad una nascita prematura. Lascia comunque perplessi, in mancanza di diagnosi in cartella clinica, la terapia posta in essere su un unico sintomo aspecifico (“perdite ematiche alla 29,4 settimana”). È indiscutibile nel caso di specie la presenza di elementi tali da indirizzare verso la corretta diagnosi di amniotite. La febbre, persistente superiore a 37.8° , le algie pelviche ben diverse dall’attività contrattile del travaglio prematuro e la leucocitosi (21 mila globuli bianchi) costituivano la triade diagnostica necessaria e sufficiente ad avanzare diagnosi precoce di infezione endouterina. Tale situazione, non diagnosticata e non trattata, ha determinato una rapida compromissione generale del feto fino a causarne la morte”.

Ed ancora,” la paziente al momento del ricovero manifestava sintomi presuntivi per diagnosi di infezione (21,4 globuli bianchi alle 12:46 del 13 aprile 2013 e algie pelviche). La misurazione della temperatura corporea quale componente della triade diagnostica rilevata solo alle 18 della stessa giornata avrebbe convalidato la diagnosi di amniotite. Gli accertamenti ematochimici eseguiti (leucocitosi e neutrofilia) e la scarsa attività contrattile rilevata alla cardiotocografia avrebbero dovuto orientare verso una diagnosi corretta. La mancanza della rilevazione della frequenza cardiaca materna nelle ventisette ore precedenti il parto, anche in considerazione della somministrazione di vasosuprina, farmaco con effetto cronotropo positivo, ha rappresentato una censurabile omissione, venendo a mancare un importante sintomo diagnostico. La terapia posta in essere finalizzata a prevenire la possibilità di un parto prematuro, peraltro mai menzionato come tale in cartella, non appare corretta e peraltro non consona al caso in oggetto. Censurabile pure l’omessa terapia antibiotica, iniziata soltanto in puerperio su ormai chiara indicazione materna. Le condizioni del feto oggettivate dalla cardiotocografia ,refertata in atti come fisiologica, a nostro avviso apparivano già inizialmente alterate in un tracciato che seppure inizialmente non francamente patologico lasciava trapelare segni di attenzione ..(..) .. il taglio cesareo venne eseguito su feto premorto e, non evincendosi dagli atti documentazione oggettiva attestante la situazione fetale nel periodo (circa 20 minuti) preintervento, una estrazione mediante taglio cesareo espletato ai primi riscontri della sofferenza fetale avrebbe certamente dato luogo alla nascita di un figlio vivo, le cui chance in termini di morbilità e mortalità avrebbero avuto un esito positivo ben più ampio del criterio “del più probabile che non” se la diagnosi (amniotite) fosse stata avanzata alla luce dei primi esami ematochimici pervenuti ai sanitari subito dopo il ricovero ospedaliero e se fosse stato posto in essere un corretto monitoraggio dei parametri vitali (temperatura e frequenza cardiaca materna) al fine di poter avanzare una corretta diagnosi ed eseguire, tempestivamente, una adeguata antibioticoterapia “.

Conseguentemente, vengono accertati in capo al Policlinico profili di censura non soltanto nell’errata diagnosi e nell’errato approccio terapeutico, ma anche nel non aver minimamente sospettato la presenza di un fatto settico e, più precisamente di una infezione amniotica di cui vi era evidente sintomatologia clinica, omettendo di controllare parametri vitali importanti quali frequenza cardiaca e temperatura corporea, rilevati solo dopo ore dall’accesso ospedaliero.

Un monitoraggio attento e diligente degli eventi, una corretta diagnosi ed una terapia antibiotica adeguata avrebbero con elevata probabilità, evitato il decesso del feto, estratto urgentemente con taglio cesareo tardivo eseguito in limine mortis. La nascita, seppur prematura (30ª settimana), sarebbe avvenuta in una divisione ostetrica con annessa terapia intensiva neonatale consentendo alla neonata, peraltro del peso superiore alla media per epoca gestazionale (grammi 1540), un’alta percentuale di sopravvivenza.

Tuttavia, danno morale soggettivo e danno da perdita di chance vengono respinti.

L’attrice nulla ha dedotto e dimostrato al riguardo; risulta prodotto soltanto un certificato della Psicologa, attestante lo stato di ansia e depressione, la quale non ha chiesto il risarcimento del danno biologico.

Il danno non patrimoniale da perdita di chance di sopravvivenza, intesa come entità patrimoniale a sé stante, non può essere ristorato ai genitori del feto premorto poiché trattasi di un danno legato alla perdita di probabilità di sopravvivenza del feto, il quale, siccome nato già morto, e , quindi privo della capacità giuridica (che si acquista alla nascita), non può trasmettere ai superstiti per via ereditaria siffatta posizione giuridica soggettiva .

Pacifico, invece, il danno da perdita del rapporto parentale.

Secondo la Suprema Corte, nel caso di feto nato morto, è ipotizzabile solo il venir meno di una relazione affettiva potenziale che, cioè, avrebbe potuto instaurarsi, nella misura massima del rapporto genitore figlio, ma che è mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita.

La qualità dell’intensità della relazione affettiva con la persona perduta, in caso di feto nato morto, è più modesta ed anche inesistente data la “non nascita” dell’individuo, seppur formatosi nel grembo materno.

Occorre, quindi, considerare l’instaurarsi o meno di un oggettivo rapporto con i genitori perché si concretizzi un evento di danno importante nella vita dei futuri genitori; conseguentemente, la morte del feto non può essere equiparata a quella di un figlio nato vivo.

Vi è, pertanto, una distinzione tra la morte del neonato, alla quale si riconduce la perdita di un rapporto parentale effettivo, e la morte del feto, alla quale si riconduce solo la perdita di una aspettativa di rapporto parentale, con ciò manifestando l’interpretazione che il figlio morto prima della propria nascita non sia evento concretizzante un danno importante nella vita dei futuri genitori.

La voce di danno viene liquidata in euro 80.000,00 per ciascun genitore.

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La responsabilità risarcitoria per mancato consenso informato

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